10 febbraio 2012
AUTORE: Luisa Massaro
La pratica dei murales è percepita dalla società come una vera e propria piaga: attività che lede il decoro delle città e dei patrimoni artistici.
Prosegue il nostro percorso sui graffiti sui muri delle città, iniziato in questa puntata.
I writers, in quanto deturpatori di proprietà pubbliche e private, vengono comunemente definiti “vandali”. Alcune persone ritengono, invece, si debba distinguere tra semplici imbrattatori e veri e propri artisti.
I writers, a prescindere dalla complessità delle loro opere, sono invece convinti di appartenere a una categoria distinta: quella dei nuovi artisti.
Così come nell’antichità l’uomo primitivo graffiava le grotte, oggi i writers consumano bombolette sui muri urbani. Poco è cambiato, a conti fatti.
I murales, o i graffiti in generale, sono da sempre un mezzo di comunicazione di massa che consente di gridare, seppur in silenzio e a costo zero, le verità di gruppi di persone.
Da un punto di vista sociologico, le ragioni che spingono i writers a “imbrattare” beni altrui sono:
1. voglia di evadere, magari rappresentando mondi fantastici;
2. voglia di colorare, quindi dare vita alle grigie città;
3. voglia di scuotere le coscienze umane e di interrompere la frenesia del mondo, sempre in corsa contro il tempo;
4. necessità di protestare contro una società ricca di contraddizioni, in cui spesso il potere si serve del diritto per reprimere le minoranze e portare avanti l’ideologia del momento.
I writers non accettano, inoltre, che la società preservi e promuova i graffiti del neolitico o gli affreschi egizi e non le loro opere creative. Sono convinti che anche i semplici scarabocchi o simboli siano espressioni artistiche pregne di significato.
In sociologia, si tende ad accomunare i murales ai cartelloni pubblicitari in termini di impatto visivo e contenutistico. L’unica differenza risiederebbe nello scopo sotteso: inviare un messaggio gratuito, nel primo caso, e perseguire uno scopo di lucro nel secondo.
Tuttavia, se è vero che l’arte non deve essere ostacolata, è anche vero che non può essere imposta. L’arte deve essere ricercata in base alle proprie attitudini e al proprio gradimento.
La cosa che aggrava il quadro è che tutto ciò avviene a spese altrui, in quanto i costi per il recupero dei beni deturpati grava su chi “subisce” questa forma d’arte.
Poco allettante sarebbe per chiunque l’idea di svegliarsi al mattino e trovare un proprio bene imbrattato, soprattutto se dietro a esso si celano le fatiche e i risparmi di una vita. L’arte è anche rispetto per gli altri.
Senza poi parlare dei casi in cui neo-espressioni artistiche vengono impresse su opere d’arte preesistenti. Deturpare l’arte con la propria “creatività” è una grossa forma di inciviltà, e questo cozza con il concetto di artista.
Si esige democrazia, ma se ne contraddicono quotidianamente i presupposti. Con questo atteggiamento, però, ciascuno resterà saldamente arroccato sulle proprie posizioni.
Se è davvero il dialogo che si vuole, si faccia di tutto per renderlo costruttivo.
In una società civile, si devono contemperare due opposte esigenze: il diritto di esprimersi liberamente, senza che vengano ostacolate le proprie manifestazioni artistiche, e il diritto di scegliere se accettare o meno la presenza dell’altrui arte, magari a scapito della proprietà privata o del bene pubblico.
Concetto da tener presente è che, la libertà di ciascuno finisce laddove inizia la libertà altrui. Solo in questo modo si delimitano reciproci spazi di libertà, equipollenti gli uni agli altri.
Quando il buonsenso non consente a ciascuno di capire fin dove ci si può spingere senza violare il precetto del “non danneggiare gli altrui diritti” [1], interviene la legge ponendo dei paletti all’arbitrio umano.
Per rendere meno rigidi questi confini è necessario giungere a un compromesso.
Si potrebbero adibire zone ad hoc, come si fa ormai in molte città del mondo. Questo punto accende però grosse polemiche, in quanto i writers ritengono che tale soluzione costituisca un’ennesima forma di imposizione proveniente dallo Stato. È quasi come se li si volesse ghettizzare.
Senza un atteggiamento di apertura non si approderà mai da nessuna parte.
Non è giusto reprimere l’arte come non lo è costringere i privati e le amministrazioni, quindi indirettamente i cittadini, a sostenere ingenti spese per il recupero dei beni violentati!
Una soluzione potrebbe rinvenirsi proprio nel codice penale [2], con riferimento al concetto di consenso dell’avente diritto.
Questa causa di esclusione della responsabilità prevede che chi è titolare di un diritto, del quale può disporre, ha la possibilità di rinunciare alla tutela dello stesso. Per cui se al proprietario di un edificio piace l’idea di un murales sulla facciata di casa potrebbe autorizzare un writer a dare sfogo alla sua creatività su di essa.
Tuttavia, vivendo in una società civile, anche il proprietario esclusivo di un bene deve attenersi ad alcune regole. In particolare, dovrà rispettare i vincoli imposti da un eventuale “piano del colore”[3] o da un “regolamento condominiale”.
Superato il problema dei regolamenti, e compatibilmente con essi, potrebbe anche trovarsi un punto di incontro e, perché no, magari riuscire a riproporre il modello offerto dalla “Perla del Tirreno”, Diamante: connubio perfetto tra arte e decoro.
Ma questo non saremo noi a deciderlo, perlomeno in questa sede. Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza!
[1] Principio del “Neminem laedere”: non danneggiare nessuno.
[2] Art 50 c.p.
[3] Il piano del colore è un regolamento comunale che indica i criteri da seguire e cui uniformarsi per garantire una valorizzazione cromatica del complesso urbano, in un’ottica di insieme.
La foto del presente articolo è un’opera artistica di Dantemanuele De Santis, DS Photostudio, ©. Ogni riproduzione riservata.
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