Inchiesta sul writing vandalico

Dai segni dei lustrascarpe di New York agli estintori con acido cloridrico.
Evoluzione verso il vandalismo di un fenomeno fuori controllo.
Un esperimento di contrasto dell’Associazione Nazionale Antigraffiti.
Piccola semiotica delle Tags.


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É un’invasione, ce n’è dappertutto. Su muri, edifici, anche monumenti purtroppo, e portoni, serrande, cabine elettriche e apparecchi per il bancomat, edicole e fermate Atm, cartelli e avvisi stradali, mappe della metro e affissioni pubblicitarie, treni e autobus, anche automezzi privati. Se ne vedevano perfino sui muri del convento di clausura di via Ponzio, ma le monache agostiniane da poco li han fatti ripulire. Una presenza costante nel panorama urbano comunque che si diffonde come una sorta di contagio, simile agli sfoghi della varicella sul corpo di un malato, lasciando tracce difficilmente cancellabili. Ma a differenza delle pustole della nota malattia, queste non regrediscono spontaneamente. I segni restano lì, a meno che qualcuno non provveda, a costo di molto lavoro, denaro, impegno e inevitabili danni ambientali dovuti al fatto di dover usare un bel po’ di vernici e diluenti. Parliamo delle scritte, o graffiti, o writing se preferite dato che l’origine è anglosassone, quelle che “ignoti vandali” si divertono a tracciare ovunque ci sia una superficie disponibile. Se ne è scritto tanto, il fenomeno è stato più o meno analizzato e i suoi casi più conosciuti, come quello del famoso Bansky,
inglese, indubbiamente artista acuto e raffinato, capace di far salire il valore dei palazzi che usa come tele o l’ira dei sionisti per gli “squarci” pittorici aperti nel muro con cui Israele ha rinchiuso i Territori della West Bank palestinese, hanno fatto il giro del mondo fino a diventare miti.

Ma qui consideriamo i segni, e sono la stragrande maggioranza, che di estetico decorativo o artistico hanno ben poco, quei ghirigori o letteroni a spray o a pennello paragonabili, se fossero suoni, agli strimpelli di un apprendista musico senza gran talento. Ve ne siete mai chiesti il significato? Eppure accompagnano la nostra vita, ogni giorno, ovunque andiamo, ovunque si posi il nostro sguardo. Ma è proprio inevitabile accettare che le nostre città ne siano ricoperte, è un fenomeno naturale o un flagello divino, come l’invasione delle cavallette in Cina? Iniziamo a parlarne con Andrea Amato e Fabiola Minoletti, l’uno presidente e l’altra attivissima attivista dell’Associazione Nazionale Antigraffiti.
Quelle scritte rivelano un mondo sommerso, ci dice Amato, un fenomeno che si è diffuso come un virus ed è praticamente fuori di controllo. E la signora Minoletti, che già conosciamo per il suo impegno contro la prostituzione in viale Abruzzi e per il suo metodo da ricercatrice, ci inizia agli arcani delle famose tags, ossia le firme dei graffittari. Possono essere di singoli writers, ci spiega, o di crews, che sarebbe a dire gruppi, ciurme, combriccole. Vandali, imbrattatori, o artisti di strada che siano o credano di essere, di solito gli autori le compongono con tre lettere, a volte accompagnate da numeri, e per capirli bisogna studiarli, ci dice la signora, analizzare il territorio e frequentare i loro social network. Questo ha fatto lei e uno dei risultati è stato decifrarne molti e darci così una una prima chiave di lettura, quantomeno semiotica, che già di per sé risulta rivelatrice. Molte sono mutuate da slangs marginali americani o inglesi, altre indicano semplicemente il luogo di provenienza o appartenenza della crew e altre ancora rimandano all’arrivo sulla scena di pandillas o maras ossia bande giovanili di origine latinoamericana:
OAS: Old ass shit oppure, in una versione meno sboccata, Over all laws.
BFS: Barona (fucking the streets?).
NSA: No stop action.
ASD: Associazione st…zi dementi (finalmente un po’ di italianità).
BSC: Bacone (inteso come piazzale e non come antesignano della scienza moderna) special crew.
CTO: Check this out, ossia Cùccatelo, in traduzione libera.
WOK: Modificazione apocopa di Workers.
RW: Rebel writers.
FIA; Fuck it all (che la dice lunga).
TMPS: Tempeste, con la esse del plurale, di cui fanno parte i due writers,
SNEG  e ALFA imbrattatori di Pza Grassi, recentemente identificati e denunciati.
PTS: Putas (per non dimenticare le tematiche di genere).
TFRK: Traffic crew.
OCM: O colpisci o muori, dei writers Reso e Resk.
OIC: Oltre i confini, crew di una dozzina di componenti.
PTW: Pimp (che significa magnaccia) the whishes o Play to win (e buona fortuna).
OTV: Otra vuelta, latinos, sono quelli che boccano i treni e li dipingono con i passeggeri dentro.
WCA: We can all (altra grossa ed eterogenea crew di latinos, tra i più violenti).
031: dal segno di “ti voglio bene” fatto con con le dita, sempre dai latinos.
MW: Metro War – Acronimo dell’obbiettivo: questi amano “farsi” i treni della metro.
HLG: Hooligans. (mica tanto originali)
HAG: Hit and Go dei writers CROMO, RAUTO E KOTONE.

Ma ce ne sono molte altre, anche di più lettere, WEIS, HUMEN, CROOM, FROS e chi più ne ha più ne metta, di solito tutte svolazzi sprazzi e circonvoluzioni che manco un bimbo dell’asilo con problemi. Perché è proprio così che fanno: si esercitano sui muri, come se le case altrui fossero block notes, finché non abbiano perfezionato il loro stile e la tag sia quella giusta, quella che proprio gli va a genio. E allora vai, giù a ripeterla all’infinito senza riguardi per nessuno. Ha raccolto un bel campionario la signora, ma chi le fa, a chi siamo di fronte? La risposta dei nostri interlocutori è unanime: l’Associazione Antigraffiti più che di sociologia, si occupa della fenomenologia: studiano e contrastano il fenomeno con gli strumenti a disposizione di un’associazione di volontariato. Proprio in viale Abruzzi, ad esempio, hanno realizzato il maggior esperimento nazionale di cleaning: dal 2008 le scritte vengono analizzate e i palazzi dal civico 1 al 38 vengono ripuliti, insieme a 73 serrande e 96 manufatti vari, a spese del locale Comitato. Prima era l’AMSA che forniva le vernici, poi una sentenza del TAR del 2010 ha stabilito l’obbligo di indire bandi per le opere di ripulitura. Ma bandi a tutt’oggi non ci risulta ce ne siano stati. Però ci garantiscono che almeno qui le scritte sono radicalmente diminuite: “loro” vedono che i segni vengono cancellati e vanno a farli da un’altra parte, è statisticamente provato dicono i due attivisti. Sarà, ma pur limitandoci anche noi alla superfice, andando in giro abbiamo notato che chi ha i soldi, come i condomini delle zone ricche, ripulisce e chi non li ha se li tiene e basta, piacciano o no.

Non vi è dubbio però, riprende la signora Minoletti, che il fenomeno proprio per mancanza di un contrasto efficace, si sia esteso ed evoluto verso forme vandaliche ed estreme. Prima in America, come sempre, e poi da noi: i writers si arrampicano sempre più in alto, osano sempre di più e hanno iniziato a usare nuove tecniche molto più invasive: rulli, estintori riempiti di vernice con l’aggiunta di pericolosissimo acido cloridrico. E lo scretching: vetri e plexiglass vengono danneggiati irreversibilmente con punteruoli e martelletti (molto apprezzati quelli rubati dai treni, il cielo non voglia che ce ne sia bisogno) come nel caso di Bleaz, il francese che nel giugno 2012 ha danneggiato non so quante vetrine nel quadrilatero della moda (e il Museo del Novecento) facendo danni per diverse decine di migliaia di euro (la sua crew si chiama FAC: fuck all cops). O delle vetrate all’OVS di via Torino con danni per 50.000. Ora c’è anche il catrame spray, che lascia segni in rilievo difficili da ripulire o anche solo coprire con vernice. Costano 4,70 a bomboletta e sono in libera vendita. Così sono stati colpiti dei bar in piazzale Bacone, come a Marsiglia e in varie città della Germania.

Una strana guerra insomma, ma chi la combatte? Chi sono i writers, torniamo a chiedere. Andrea Amato sorride, non c’è uno stereotipo, ci dice. Molti frequentano istituti artistici ma l’età si è abbassata fino a 12 anni e di solito continuano fin oltre ai 35. E ci fa un po’ di storia: una delle origini sono stati i lustrascarpe di New York, che segnavano le loro zone, poi il mitico soldato americano della seconda guerra mondiale che ovunque passasse scriveva Kilroy was here, poi le bande latine di Los Angeles nei favolosi sixties. Da noi invece negli anni ’80 venne RAP, sembra un americano, per vedere il GP di Monza. E già che c’era scrisse che c’era stato, facendo da levatrice e musa alla TBC (altra malattiva virale), crew capostipite, attiva in tuitto il norditalia e cultrice del vandalismo, i cui membri ora sono tra i più attempati. Disagio sociale? Forse. Ma più ancora modo di affermare sé stessi o il proprio gruppo contro gli altri e contro tutto il resto. E allora che si fa?

 

Articolo apparso sulla testata on line www.x3xmi.it di Adalberto Belfiore, con un video di Micol Barba il 19/11/2013

http://www.z3xmi.it/pagina.phtml?_id_articolo=5359-Inchiesta-sul-writing-vandalico.html#.UplN7o3oKNM

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