Ottant’anni tra splendore e incuria. Un luogo nato sotto una cattiva stella
Negli anni Ottanta il parcheggio doveva chiudere per dare spazio al Museo della Mille Miglia
Brescia – Tra qualche giorno la piazza della Vittoria tornerà ai cittadini. Che sia la volta buona? Quando fu inaugurata, nel 1932, i bresciani restarono spaesati e piuttosto intimoriti. Tutti quei marmi lucidi, gli ottoni brillanti nel caffè Impero, il lusso del Palazzo delle Poste, la fontana, il cinema elegantissimo di Tito Brusa, l’albergo di Egidio Dabbeni. Chi se l’immaginava una vetrina tanto scintillante in tempi di autarchia e di fame nelle campagne?
Dopo un giro i bresciani se ne tornavano a casa perplessi. La piazza della Vittoria è nata sotto una cattiva stella, non c’è niente da fare. Con la caduta del fascismo subì l’ingiuria della Storia; ma non era finita, perché si decise di creare un parcheggio interrato (1974). Del resto, i bresciani amano molto le automobili (c’è un bel bassorilievo fra quelli che ornano il cosiddetto “grattacielo”, e raffigura proprio un’automobile). Se però si costruisce un garage sotto terra, serve un’enorme griglia di aerazione e dunque viene sacrificata la natura stessa della piazza: non ci si può più camminare. Una leggenda metropolitana dice che dall’alto la benedetta griglia sembra un fascio littorio.
A metà degli anni Ottanta la piazza era uno sfacelo, odiata e sempre più immiserita. Niente al confronto di quello che sarebbe accaduto nei decenni successivi con la sosta selvaggia, le bancarelle cinesi, gli skateboard e la progressiva chiusura dei negozi e degli esercizi.
L’architetto Giorgio Lombardi, insieme al berlinese Andreas Brandt, elaborò un progetto di recupero (1988): l’incarico era ufficiale. Passammo mesi a studiare ogni centimetro quadrato dell’invaso spaziale, e in sintesi decidemmo di combinare l’originaria immagine piacentiniana con le necessità del momento. Spariva la griglia e al suo posto veniva aperto un taglio che inquadrava il Museo delle Mille Miglia, previsto al primo piano dell’autosilo (c’era sembrata una bella idea celebrare la famosa corsa automobilistica proprio lì; invece si preferì utilizzare un monastero medievale!). Le facciate di contorno della piazza avrebbero recuperato la tessitura dei quadrotti bianchi-grigi, oggi affogati dentro un glaciale candore. Il Palazzo delle Poste era l’ideale sede per il Museo del Novecento, mentre il Quadriportico diventava una serra per gli aperitivi, e così via.
Infine proponemmo il reinserimento di tutto l’apparato decorativo che era andato distrutto o disperso (ne ha parlato giustamente Massimo Minini su queste pagine). Ovvero un nuovo bassorilievo da collocare sulla Torre della Rivoluzione, e qua e là interventi artistici grazie a un accordo con la Biennale di Venezia. A quel punto il Bigio poteva anche starci.
L’attuale amministrazione si trova con una patata bollente fra le mani, perché tutto si è spostato su un piano politico-simbolico, aggravato dalle casse comunali che languono. Un problema, quello del Bigio, che intreccia il revisionismo con la crisi economica. Staremo a vedere. Certo non è dalle opinioni degli esperti d’arte, dei funzionari statali e delle singole associazioni cittadine che può venire fuori una soluzione. E apprendere, ad esempio, che lo scultore Arturo Dazzi era un anarchico, non sorprende: gli artisti fanno di tutto pur di lavorare e ottenere visibilità. Il fascismo, come qualsiasi dittatura, tendeva al massimo consenso. Lo stesso Piacentin aveva delegato il progetto ai collaboratori (tra cui i citati Brusa e Dabbeni). Ogni tanto veniva a Brescia, ma entro sera si spostava sul lago di Garda con l’amante di turno.
Se la si guarda bene, la piazza della Vittoria è una specie di clone di piazza della Loggia: il Palazzo delle Poste in asse come il palazzo municipale a tre fornici, la Torre della Rivoluzione come quella dell’orologio, il “grattacielo” come Porta Bruciata, e naturalmente la teoria dei portici. Qualcuna la definisce razionalista, ma non ha capito. A rovinare l’immagine di questo luogo particolarmente jellato ci si mettono adesso i graffitari e i vandali delle tag. I nostri cuccioli, che di Marcello Piacentini, del Bigio, di musei e di centri storici non hanno mai sentito parlare, usano i marmi delle facciate per sfidarsi a furia di bombolette spray. Negli anni Settanta non c’era angolo di Brescia che non presentasse scritte inneggianti al Che, a Mussolini, alle Br e alle croci uncinate.
Dopo un’insperata tregua, ora i ricorsi della storia si ripresentano con il linguaggio criptico dei ghetti americani, delle banlieu parigine e dell’onnipresente rap. C’è forse da stupirsi se la conoscenza della città è ridotta a qualche conferenza per inguaribili appassionati, essendo stata tolta la Storia dell’Arte dalle materie scolastiche? Il minimo che capiti è che le architetture cinquecentesche, barocche e Novecento diventino un formidabile sfondo gratuito per la creatività degli incolti cuccioli urbani. Meglio non pensare a cosa comparirebbe sulla nuda muscolatura di un immacolato Bigio.
Articolo di ANTONIO RAPAGGI apparso il 14 dicembre 2013 sul Corriere della Sera
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