SCOPERTA – Questa storia potrebbe non essere vera. È il 12 agosto 1530 e qualcuno a Firenze vuole Michelangelo morto. L’ordine viene da Papa Clemente VII, quel Giulio de’ Medici che insieme all’artista giocava, da bambino. Il Pontefice, grazie alle truppe di Carlo V, ha appena riconquistato la città. L’insurrezione è fallita, sono cadute – stavolta per sempre – le istituzioni repubblicane. Una Firenze stremata dalla fame, dalla peste e dall’assedio, si (ri)consegna ai Medici, gli antichi signori di sempre. Che stavolta non avranno pietà.
In cima alla lista dei ricercati, il traditore Michelangelo Buonarroti. Quando Firenze insorge, nel 1527, l’artista – che ha da tempo estratto il Davide dalla pietra e popolato di sibille e profeti la volta della Sistina – è alle prese con i sepolcri Medicei in San Lorenzo, commissionati proprio dal quel Giulio de’ Medici, prima Cardinale, adesso Papa. Fra lo stupore dei concittadini, il Buonarroti ripone di slancio le statue sbozzate per la gloria degli ultimi rampolli della dinastia – scomparsi nel fiore degli anni – e abbraccia con ardore la causa repubblicana. Sa di mettere in gioco la vita, eppure si schiera contro quella famiglia che lo ha allevato e fatto studiare, da ragazzo, e per la quale stava lavorando ancora il giorno prima della rivolta. Ma la febbre patriottica lo contagia, il sogno della libertà è più forte. O forse solo l’occasione di scrollarsi di dosso il giogo perpetuo della riconoscenza. Accetta così l’incarico di fortificare la città e adattare le vecchie mura alla potenza delle nuove armi da fuoco. Ecco l’architetto Buonarroti rinforzare bastioni e campanili, scapitozzare torri. Elevare tramezzi. Sono mesi infernali, i fiorentini fanno il vuoto intorno alle mura, demoliscono conventi e ville fuori porta, per non dar protezione al nemico. Alle bombarde e alla fame, si aggiunge adesso anche la peste: l’adorato fratello Buonarroto si spegne di contagio fra le braccia dell’artista. Michelangelo è sconvolto, l’euforia diventa angoscia. Si sente in trappola, diserta, fugge a Venezia. Poi ci ripensa e inspiegabilmente torna. Torna anche se si comincia a capire che questa Comune fiorentina ha troppo osato. Torna per riconsegnarsi a un assedio senza più speranza. Quando Firenze cade, il 12 agosto, Michelangelo sa che la scommessa persa potrebbe costargli caro. Nelle rispettive opere, Vasari, Condivi e Benedetto Varchi sono tutti d’accordo: Michelangelo ha bisogno di nascondersi, di aspettare che le vendette si compiano e il bagno di sangue si plachi. Deve sparire. E in fretta.
Sotto la Sacrestia Nuova. Gli viene in aiuto l’insospettabile priore di San Lorenzo, Giovanni Battista Figiovanni, noto sostenitore dei Medici, uno con cui l’artista non si era neppure troppo bene inteso, in passato. «Io lo canpai dalla morte» scrive il sacerdote nelle sue Ricordanze «et salva‘li la roba». Il priore mette a disposizione del Buonarroti un posto dove difficilmente lo cercheranno: proprio la chiesa dei Medici, il San Lorenzo a pochi passi dal Palazzo di Famiglia. Quelle Cappelle dove l’artista scolpiva le sepolture dei cadetti allo scoppio dell’insurrezione. C’è un sotterraneo, sotto la Sacrestia Nuova, chiuso da una botola. Lì lo scultore si rintana, un loculo di dieci metri per due, le finestrelle sbarrate, sulla sinistra. In questo tunnel illuminato a candele di sego, il maestro aspetta che il destino si compia, che sia vita o sia morte. Anche se è comunque già sconfitta.
Le visite dello scolaro. Nei lunghi giorni tutti uguali, il recluso si aggrappa ai muri della cantina come ai fogli di un album da disegno, e con un tizzone carbonizzato comincia a prendere appunti. Il sotterraneo diventa cosi palcoscenico di una sorta di seduta psicoterapica, in cui passato e futuro si confondono, e i ricordi si mutano in progetti. Dall’animo dolente del fuggiasco sgorga un fiume di graffiti: studi di piedi, profili di donna, figure sdraiate, rotazioni di corpi, braccia, gambe. I segni sono rapidi, i tocchi nervosi. Sono curve che accolgono idee, intuizioni interrotte che poi riprendono il largo. L’artista sembra provare sul muro le grandi figure che un giorno, se mai dovesse uscirne, scolpirà. E sono figure che si muovono, si muovono. Si muovono. La testa inclinata di un uomo dagli occhi vuoti e vibranti… le gambe di un principe assiso… un gigante dal braccio alzato pronto a sfuggire alla pietra che lo trattiene… un vecchio scarmigliato dalle spalle ricurve, vegliato da un angelo nella disfatta… un misterioso profilo di donna. In poche settimane il cunicolo si popola di murales, compagni di una prigionia spezzata solo dalle rapide apparizioni del giovane scolaro Antonio Mini, l’unico autorizzato a fare visita al maestro, a portargli i pasti. Anche lui, ogni tanto, acchiappa un tizzone e disegna qualcosa. Per poi svignarsela nelle strade cittadine bagnate a sangue.
Ma il potere, si sa, valuta gli uomini per quel che possono fruttargli. Sbollita l’ira, Clemente VII si ricorda che Michelangelo è il più grande artista vivente, e gli è indispensabile per gli ambiziosi progetti di celebrazione familiare. “Papa Clemente fe’ fare diligenza di trovarlo”, scrive il Vasari “con ordine che non se li dicesse niente, anzi, che se gli tornassi le solite provisioni, purchè egli attendessi all’opera di San Lorenzo”. Il cerchio si chiude. Dopo averli voluti morti, ed aver fatto di tutto perché lo fossero, Michelangelo torna a essere pagato per celebrare la grandezza dei Medici. Inchiodato più che mai a quel futuro servile cui aveva voluto sottrarsi. Sono passati due mesi, lo scultore riprende l’antico lavoro per le tombe della Famiglia, nelle Cappelle; non senza aver prima fatto eliminare, giù nel sotterraneo, le tracce che potrebbero mettere nei guai il buon priore. Così i disegni finiscono sotto uno strato di biacca, una scialbatura destinata a cancellarli e che invece li proteggerà, per riconsegnarli alla Storia.
Una saga internazionale. Questa storia invece è vera. È il novembre 1975 e a Firenze si sta cercando un’uscita di sicurezza per le Cappelle Medicee. Un vecchio dipendente ricorda di aver visto, nel lavamani sinistro della Sacrestia Nuova, la botola di accesso a un sotterraneo utilizzato un tempo come deposito di carbone per le stufette dei custodi. Gli armadi ammassati sopra la botola vengono rimossi. La porta si solleva. Dieci scalini più sotto, si apre un loculo pieno di muffe filamentose, annerito dalla carbonella e dal fango secco, eredità dell’alluvione del ’66.
Comincia la rimozione dei detriti, mentre un restauratore si accinge agli usuali saggi di pulitura delle pareti. Il 15 novembre di buon’ora, il direttore del Museo, Paolo Dal Poggetto, riceve la notizia: il bisturi avanza, due strati di intonaco cedono dolcemente, su un terzo strato più antico stanno affiorando superbi disegni di gambe. Ma di cosa è l’inizio? Di “uno dei più importanti ritrovamenti artistici del XX secolo” (Frederick Hartt)? Oppure della scoperta “degli scarabocchi di un vivace gruppo di artisti dal talento limitato” (Caroline Elam)?
In realtà, il rinvenimento è soprattutto l’inizio di una saga non solo italiana: la contesa a distanza fra più tifoserie, capace di paralizzare la gestione della scoperta e di tornare a seppellire per oltre 30 anni la realtà del sotterraneo. Difficile comprendere come mai ci sia chi nega la paternità michelangiolesca senza neppure sentire la curiosità di scendere di persona nello scantinato (Ulrich Middeldorf, James Beck). Oppure chi si esprima – come l’autorevole Charles de Tolnay – quando la pulitura delle pareti è da poco iniziata e affiora solo qualche disegno a malapena leggibile. O ancora, come mai illustri studiosi che pur hanno ben visto, si richiudano in un fragoroso silenzio: cosa ancora più inesplicabile se si tratta dei Sovrintendenti di Firenze dell’epoca, gli “allenatori” della squadra di cui Dal Poggetto fa parte. Insomma, mentre laggiù nel sotterraneo un intero mondo torna lentamente alla luce e il direttore delle Cappelle non riesce a contenere l’entusiasmo, l’impressione è che il team non sia esattamente dalla sua parte. Il tutto senza una reale valutazione tecnica dei disegni murali: è come se le squadre si schierassero non in rapporto all’opera ritrovata, ma in base a chi dice cosa. Le logiche interne alla corporazione sembrano, ahimè, prevalere.
L’aiuto del garzone. Intanto Dal Poggetto si esprime, eccome. La sua attribuzione – magari ottimistica, ma certo non l’autopromozione di un mercante – è argomentata con gli strumenti della storia dell’arte, lo studio del contesto, i confronti, l’analisi dei disegni autografi: per lui, la maggior parte dei murales della “Stanza Segreta” è opera di un Michelangelo fuggiasco e solitario, con qualche tratto più ingenuo vergato dal garzone Antonio Mini. La testa inclinata di un uomo dagli occhi vuoti e vibranti, sulla parete destra, è il ritratto a memoria del Laocoonte (che Michelangelo aveva studiato dal vivo), studio preparatorio per il San Cosma destinato alle tombe della Sacrestia Nuova e lasciato realizzare poi all’allievo Montorsoli; le gambe di un principe assiso sono quelle del giovane duca di Nemours, statua che sarà presto terminata al piano superiore; il gigante dal braccio alzato pronto a sfuggire alla pietra degli scalini, ci dà l’idea di cosa sarebbe stato il Cristo Risorto previsto nella lunetta sopra la tomba dei due fratelli Lorenzo e Giuliano, i Magnifici, se l’artista l’avesse mai realizzato. Dal Poggetto produce un testo appassionato, confutato da chi sostiene che la grandezza dei murales non permetta confronti con i disegni cartacei del Buonarroti, di ben più piccola taglia. O da chi proclama che manchino le prove del nascondiglio dell’artista proprio in quella stanzetta. Argomenti rispettabili, ma insufficienti a mantenere acceso l’interesse. Se non è Michelangelo, chi è? Chi in quel momento storico poteva schizzare su un muro tanto fascino? Intanto solo agli studiosi è permesso scendere la ripida scala che conduce al sotterraneo: per motivi di sicurezza, il pubblico è – e rimane tutt’oggi – tenuto alla larga dallo scantinato e dal suo prezioso contenuto. L’ipotesi di staccare i disegni e trasferirli altrove viene presto (e per fortuna) respinta. Senza perizie commissionate, lontano dalle lusinghe del mercato, il dibattito critico della comunità scientifica sembra esaurirsi. Il tempo di far uscire l’unica pubblicazione in commercio sull’argomento e Dal Poggetto viene magistralmente trasferito nelle Marche. Sono passati neppure 4 anni. Della scoperta e del suo autore si perdono le tracce. Fino a oggi.
Oggi la tecnologia regala ai graffiti l’immortalità virtuale. In occasione del 450° anniversario della morte dell’artista – l’anno prossimo – diventa possibile navigare sulle pareti del cunicolo grazie ad un itinerario multimediale realizzato dalla Soprintendenza del Polo Museale Fiorentino, dedicato ai capolavori del Buonarroti sparsi per la città. Che includono a questo punto anche i famigerati murales, finalmente accessibili. «La maggior parte di questi disegni è di una bellezza sorprendente, ovvio che per noi si tratti di Michelangelo e che il nostro desiderio sia di mostrarli», afferma Monica Bietti, direttrice del Museo delle Cappelle Medicee. «Ma se qualche studioso non fosse d’accordo, che si faccia avanti. È l’ora di aprirlo, questo dibattito. È l’ora di andare negli archivi, fare ricerca. Senza pregiudizi».
Senza un cartellino. È curioso notare come il ripescaggio dei graffiti avvenga proprio quando sono ormai usciti di scena tutti gli antichi oppositori, mentre Paolo Dal Poggetto è pensionato a Fiesole a scrivere poesie. Ma ancora di più colpisce come la potenza dei miti – incluso quello della “Stanza Segreta” – offuschi talvolta il senso delle cose. Nel 1975 infatti, a poca distanza dal sotterraneo, vengono a galla nell’abside della Sacrestia Nuova anche i disegni di architettura: si tratta di due grandi finestre, delle architravi, le cornici, le edicole che Michelangelo traccia sulle pareti per mostrare a falegnami e scalpellini come debbano preparare il legno e la pietra per la libreria Laurenziana, lì accanto. Siamo nel 1525, i disegni sono sicuramente del Buonarroti, e su questo per una volta sono proprio tutti d’accordo. Non solo: tracciate a carboncino, sfidano il tempo parole autografe lasciate dal maestro come indicazioni agli allievi (pilastro; basa; “la soglia di fuora” scritto misteriosamente all’incontrario, aroufidailgosal); ci sono operai che calcolano sul muro i blocchi di marmo o le giornate lavorate; e ancora, ecco la richiesta di uno scolaro (VIENI A VEDERE) o la firma di un funzionario (marco di dome//nicho meljnj). Schizzi, segni, appuntature di matita. Da quest’ammasso di linee e di progetti, dalla varietà dei disegni, dalla densità dei pentimenti, esce vivida la bottega di Michelangelo al lavoro.
Siamo a pochi passi dai sepolcri dei principi Medici, qui ogni settimana sfilano riverenti di fronte alle statue del Giorno o alla Notte migliaia di persone, non ci sono problemi di sicurezza, e neppure di attribuzione: eppure nessuno alza il naso, nessuno capisce o forse neppure vede il senso di quanto lasciato sul muro cinquecento anni fa, oggi protetto da un vetro, senza neppure un cartellino – altro che touch-screen – a spiegare che si è di fronte al ritratto di vita di un cantiere del Cinquecento probabilmente senza paragoni al mondo.
Articolo di Daniela Cavini apparso su Sette del Corriere della Sera del 3 gennaio 2013
Commenti recenti