Gli iconoclasti sguainano le spade contro gli iconoduli. Questi ultimi, «adoratori dell’immagine», sono oggi i graffitisti fortemente osteggiati. Una guerra tutta laica. Gli unni della tavolozza appaiono in Usa, agli inizi degli anni ottanta. Artisti di strada che irrompono nelle metropolitane e lasciano sui muri e sulle vetture il proprio segno espressivo, brado, istintivo e primitivo. Qualcuno di loro, in brevissimo tempo, diventa famoso, come capita a Keith Haring e, come l’autore citato, viene falcidiato dalla droga.
Vogliamo etichettarli in modo italiano, droga a parte? Erano i rottamatori degli artisti con camice e loft, inscritti nel sistema dell’arte. I «déracinés», gli sdradicati, che esplodono con la chiusura dei duri e impegnati anni settanta per affermare un modo anarchico e romantico di fare arte e di comportarsi. Cosa accade oggi? Che sporcano i muri dei palazzi. Se a Milano uno attraversa il sottopassaggio della stazione Garibaldi, vede le pareti educatamente distribuite ai taggisti. La prima ora di questo fenomeno è passata, ma l’anonimato, carattere del fenomeno, si mantiene. E tu ti fermi a guardarli: l’immagine è forte, i colori spesso accesi, il racconto trascinante e fumettistico. Nulla di scandaloso o conturbante. Questi artisti (nessuna remora a chiamarli così) amano le grandi città. Sia perché, a dispetto dello pseudonimo usato, sono molto esibizionisti, sia perché la sfida è più forte. Tra l’altro, nei piccoli centri, sarebbero presto individuati e fermati. Delinquenti? Assassini del decoro urbano? Anarchici destabilizzatori? Imprimere la propria pennellessa sul castello Ursino a Catania o sulla Fontana di Trevi a Roma è un attentato alla storia, al patrimonio artistico. Ma tante volte piuttosto che catturarli li si dovrebbe remunerare. Diciamo che il taggista è una sorta di tanghero, di pasionario. Apre orizzonti all’immaginazione, toglie grigiore alla condizioni ambientali modeste o degradate. E se ti imbatti in un murale, è come se avessi preso una boccata d’aria salubre anziché inquinata. Da remunerare quando lasciano il segno sugli insulsi edifici sbeccati apparsi come funghi tra anni sessanta e settanta, e che dominano la scena architettonica italiana. Ma le crociate sono partite. Gli iconoclasti si sono costituiti in associazioni. Tra daltonici e timorati di arte, hanno fatto voto di castità. E se qualcuno (taggisti) impone loro il peccato carnale-murale, loro ispezionano i muri, all’alba, e puritanizzano il segno immondo lasciato nottetempo. I muralisti sono giovani e cuore pulsante della società. E sano. Perché potrebbero rivolgere altrove la loro marginalità. Specie in tempi in cui i giovani non hanno futuro. E hanno subito una mutazione genetica: non amano lottare. Dobbiamo forse (anche) a loro, rappresentanti sane delle devianze, se in giro non sentiamo quei botti tutti da scongiurare? Il decoro per l’Expo? Altro che i graffiti! C’è da pensare che Milano saprà imbellettarsi con un’estemporanea soluzione per i tanti clochard che, come Snoopy, la notte guardano supini le stelle, spalle contro i cartoni allungati negli anfratti delle strade.
Articolo di Carmelo Strano apparso su La Sicilia il 29 aprile 2014
Commenti recenti