Milano
Un crescendo rossiniano monta intorno a Milano, dai fasti di fine Expo al colmo del prefetto Tronca spedito a rassettare l’ormai surclassata Roma. In questo edificante romanzo in progress sulla capitale del rinascimento italiano, c’è però una pagina incongrua e spiegazzata. Per quanto in molti abbiano tentato più volte di strapparla (dal socialista Pillitteri al leghista Formentini), se ne sta ancora lì, montata a rovescio nella storia per bene della città.
In via Leoncavallo 22, dove quella pagina è spuntata, al posto del casino organizzato dei ragazzi del ’75, c’è un condominio di mattonelle biancastre e una filiale della Banca Carige. Nel cortile che ospitò l’allergia al potere di un’avanguardia che dal quartiere Casoretto avrebbe fatto scuola di ribellione al resto d’Italia, un’Honda Point Service ha cancellato con pezzi di moto ogni pezzo del Movimento, dai muri incendiati di colori ai concerti da sballo, dalla scuola popolare all’ambulatorio di agopuntura. Lo spirito del Leonka è stato trasferito di forza altrove, è rimbalzato qualche mese in via Salomone, e ormai dal 1994 riposa in relativa quiete in via Watteau 7, la terza sede, dove ha da poco festeggiato i suoi primi quarant’anni di esistenza e resistenza.
Dietro un ponte della ferrovia in zona Greco, non distante dalla via Gluck di Celentano, in una cartiera dismessa di proprietà della famiglia Cabassi, la stessa che per colmo di ironia deteneva i diritti anche dell’ex fabbrica farmaceutica di via Leoncavallo, incubatrice di tutti i Leoncavalli a venire, la chiesa consacrata alla disubbidienza si fa annunciare da navate di murales e graffiti, che Vittorio Sgarbi ha definito “la Cappella Sistina” della contemporaneità e che proseguono ininterrotti per ogni centimetro di muro all’interno (diecimila metri quadrati al coperto, l’equivalente di due campi da calcio), dalle aule dove si insegna italiano agli stranieri e inglese agli italiani, fino ai laboratori di teatro e artigianato. La trama caotica di pitture, mandala e scarabocchi sale di un piano, raggiunge le stanze destinate a ospitare i senzatetto durante l’emergenza freddo, e poi rotola giù, alle pareti delle botteghe e dei bar ospitati in un vasto e sgangherato giardino, il cui fiore iridescente è lo spazio “Game over”, dove smanettano sviluppatori indipendenti di software e videogiochi. Dovunque, la luce è fioca, al contrario dell’odore di fumo, intenso e stordente. Uno dei motti della casa è “legalizzare e tassare”, marijuana libera come le sigarette, con un tanto allo Stato per il disturbo, come in California e Colorado (ma lotta dura a chi spaccia roba pesante). Nei cessi, molti e alla turca, geroglifici indecifrabili e una scritta birichina: “Dio esiste ma è Lui che non crede in te”. L’ingresso è dalle 19 fino alle 2 del mattino e oltre. Chiuso la domenica e il martedì, ma se per esempio il 15 dicembre, morte di Pinelli, cade proprio di martedì come quest’anno, il turno di riposo salta. Volendo, si cena alla Cucina Pop, 14 euro dal primo al dolce, o si beve all’Hemp Bar ( hemp sta per canapa), affacciato sul salone grande dove, sotto un imponente ritratto del Che e una foto ricordo dell’ex vicesindaco missino De Corato che venne in visita ma rifiutò il caffè per paura che l’avvelenassero, capita di assistere a stralunati tornei di bike-polo, con dei pazzi che rischiano di arrotarsi spingendo a bacchettate una pallina gialla dentro anguste porte. Quando il comitato di gestione, che si riunisce il lunedì, mette in programma concerti o spettacoli di richiamo, l’enorme spazio si riempie come ai bei tempi ma senza neanche una sedia, perché se c’è musica si balla e se passa un Dario Fo si sta seduti per terra. Quanta gente c’era ai bei tempi? Negli anni Settanta e Novanta, un mucchio. Adesso si rischiano giornate da cinquanta persone, compensate da altre con quattromila. L’impegno civile, caro signore, è in calo dappertutto, ma qui siamo e qui restiamo, è la nostra storia.
Per raccontare questa lunga storia in direzione ostinata e contraria, prima di Natale uscirà un libro di centosessanta pagine, edito dalle “Mamme del Leoncavallo”, scese in trincea negli autunni caldi del secolo scorso a fianco dei loro figli contro “i fascisti in borghese o in divisa” che gli volevano male. Le signore mamme sono l’unica associazione legalmente registrata in questa isola vagante ai confini del diritto, e spesso oltre: grazie alla loro tutela, stavolta editoriale, la frastagliata scia lasciata dal “centro dei centri sociali” verrà riepilogata attraverso una serie di rumorosi fotogrammi. Centinaia di istantanee che includono occupazioni, resistenze violente agli sgomberi, l’assalto alla prima della Scala del 1976, estenuanti battaglie “contro” (dal nucleare alla Tav) e “pro” (dall’Intifada ai diritti dei carcerati). Un capitolo a parte avranno le morti indelebili di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, studenti diciottenni che per il Leoncavallo lavoravano a un’inchiesta sull’impennata di droga pesante in zona Lambrate e che la sera del 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento Moro, vennero ammazzati con otto colpi di pistola da un commando a cui non sarebbe estraneo Massimo Carminati, “er cecato” della Banda della Magliana e poi di Mafia capitale: il telegiornale della sera parlerà di “regolamento di conti tra spacciatori”, i tribunali archivieranno.
C’è molto altro nella coda di questa bizzarra cometa, nata dalla disillusione del dopo Sessantotto e sopravvissuta a decenni diversamente bollenti: da quelli del terrorismo, che intaccarono il Leonka con cellule della colonna Walter Alasia, alla mortifera fase del riflusso, un collasso per l’oratorio milanese degli indignati; dal rigurgito di furore delle tute bianche, poi spento nella vergogna collettiva del G8 di Genova, fino alla presente e perseverante stagione del distacco dalla politica. Quando i leoncavallini prendono vita e nome, il 18 ottobre 1975, un litro di benzina costa 350 lire, diecimila una dose di eroina tagliata con stricnina, un milione 960mila un Maggiolino, l’equivalente di un anno di stipendio di un tramviere. Alle Regionali, il Pci di Berlinguer cresce del 5,6 per cento e arriva poco dietro alla Dc di Fanfani, che però perde il 2,5 e lascia la segreteria a Zaccagnini. A seguire il Psi di De Martino e il Movimento sociale di Almirante. Tutti scomparsi, persone e sigle. Il Leonka no.
A ogni 25 aprile, è ancora lo spezzone di corteo più numeroso. Alle ultime Comunali, maggio 2011, ha ospitato un seggio per le primarie del centrosinistra e dato una spinta a Pisapia (spinta di cui non godrebbe Giuseppe Sala, mister Expo, fosse lui il candidato di parte). I cani sciolti, i libertari, i marxisti-leninisti della prima ora sono stati in gran parte sostituiti dalle nuove leve dell’antagonismo, più sintonizzate sulle onde corte dell’hip-hop e del tempo digitale. Su Facebook sono a 59.406 “mi piace”, con post del tipo: “Giovedì, Horses Crew ha il piacere di ospitare Smashing Wednesday Sound System per rendere meno freddo l’infrasettimanale milanese”. Oltre alla musica, è stato anche adattato il marchio: da “centro sociale” a “spazio pubblico autogestito”, il cui beffardo acronimo è S.p.a. In compenso, continuano a chiamarsi “compagno/compagna” e stampano, in tiratura limitata, un calendario di cui vanno fierissimi: il 2015 ha in copertina un grappolo d’uva con il titolo “No Tav, No Tavernello” e a ogni mese la segnalazione di qualcuno “da non dimenticare “, da Giuseppe Pinelli, anno di disgrazia 1969, a Carlo Giuliani, Genova 2001, e in mezzo Roberto Franceschi, Luca Rossi, Davide Cesare detto Dax, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi, tutte reclute spazzate via da una guerra mai dichiarata. Come Fausto e Iaio, l’apice di dolore di questi primi quarant’anni e il collante più potente che ancora tiene insieme la ditta, con i suoi credo (“Qui sono, qui resto”) e il conseguente, esibito disinteresse per gli avvisi di sfratto che ogni mese la Corte d’Appello recapita in via Watteau, puntualmente prorogati dai magistrati e disattesi dagli abusivi.
Giuliano Pisapia ci ha messo del suo per costruire ponti tra il Leoncavallo e il resto della città. Da sindaco, è quasi arrivato a un accordo tra la proprietà dell’immobile e gli occupanti storicamente morosi, con annessa la rivoluzionaria frase “pagare l’affitto”.
Non ci siamo ancora, domani chissà. Un paio di vite fa, quand’era avvocato, proprio Pisapia difese settantanove leoncavallini da una grandine di accuse che andavano dal lancio di molotov alla violenza contro agenti e pubblici ufficiali. I fatti risalivano al 16 agosto 1989, quando le “ruspe rosse” della giunta Pillitteri, approfittando del periodo di vacanza, demolirono con un blitz buona parte del centro sociale e gli occupanti risposero dal tetto con un armamentario da guerriglia urbana. Il processo si celebrò nel giugno successivo. «Il clima era pessimo», racconta il sindaco avvocato. «Il presidente del Tribunale, Renato Caccamo, passava per uno molto severo. Gli proposi, prima che si pronunciasse, una visita alla sede del Leoncavallo. Fu ispezionato ogni angolo, alla ricerca di prove a sostegno dell’accusa. Solo che dagli armadietti delle stanze saltarono fuori i quaderni dei compiti di bambini e i diari degli insegnanti che tenevano corsi per gli extracomunitari. La condanna alla fine fu lieve, e con un’attenuante senza precedenti: “Avendo gli imputati agito per motivi di alto valore morale e sociale”. Forse neppure loro se lo ricordano più».
Il 31 ottobre, mentre Milano e l’Italia intera gonfiavano il petto a Rho-Pero per l’happy end dell’Expo, la signora Luciana Castellini, presidente della “Mamme del Leoncavallo”, si è fatta a piedi, aiutata da un bastone per via di tre ernie alla spina dorsale, il lungo e buio corridoio che dal portone di via Watteau 7 porta alla sala della Cucina Pop.
Si è seduta a una tavolata vuota, ha cominciato a ricevere baci da vecchi compagni e compagne ricomparsi da chissà dove per il suo compleanno: «Stasera ne faccio novanta, mi aiuteranno a spegnere le candeline. I ragazzi qui mi vogliono bene. Da quarant’anni sono la mia vita». Partono in suo onore due minuti di fuochi d’artificio. Li ha comprati Elisa, stessa età del Leonka, scappata di casa quando aveva sedici anni, unica dipendente assunta in regola nella storia del centro sociale. «Perché lavoro qui? Perché ci ho creduto tanto». Ancora? «Sì». E abbraccia la Luciana come fosse la sua, di mamma. Alle loro spalle, un cartello che resiste da qualche mese: “Chi non limona a Capodanno, non limona tutto l’anno”.
Articolo de La Repubblica di Carlo Verdelli del 8 Novembre 2015
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