CATANIA
“Codici sorgenti. Visioni urbane contemporanee” è un’antologia dei protagonisti della street-art che ricostruisce il percorso che ha portato dal primitivismo dei primi graffiti degli anni Sessanta al movimento artistico che si è diffuso in tutto il mondo rivoluzionando lo stile e il senso del fare arte. Un’arte che fiorisce in strada, negli spazi del quotidiano, sui muri scrostati dei palazzi, nelle metropolitane, nelle stazioni, sui treni, sulle cassette della posta, sui quadri elettrici, sui cassonetti dell’immondizia e su qualunque oggetto che possa fare da supporto al segno e al colore. E’ un’arte che è allo stesso tempo critica graffiante e sberleffo dei valori borghesi e impegno per il riscatto dei luoghi degradati e dei loro abitanti, come è avvenuto, per esempio, nel quartiere romano di Tor Marciana, periferia trasformata in un museo a cielo aperto. La mostra “Codici sorgenti”, allestita a Catania a Palazzo Platamone, è promossa dalla “Fondazione Terzo Pilastro-Italia e Mediterraneo”, di cui è presidente Emmanuele Emanuele, in collaborazione con la galleria 999Contemporary. Propone – ed è la prima volta che viene fatto in Italia, proprio per la tipologia di questa forma di espressione – una rassegna di opere, provenienti da collezioni private, che riproducono in scala ridotta e su un diverso supporto le opere impresse sulle enormi pareti dei palazzi e sugli oggetti dell’arredo urbano. Opere che i writers hanno cominciato a realizzare su richiesta quando i galleristi delle grandi metropoli li hanno scoperti introducendoli nel mercato dell’arte. A Palazzo Platamone sono esposte circa cento opere di cinquanta artisti provenienti da 14 Paesi del mondo, uomini e donne di tutti i colori e di tutte le religioni, espressione di quest’arte spontanea e popolare che, nata nelle periferie degradate delle grandi metropoli, diventa il primo movimento artistico globale con forti valenze sociali. Un movimento che – come racconta Albert Brumer nel catalogo della mostra – nasce negli anni Sessanta a Philadelphia da uno studente che, alla ricerca di notorietà, scrive ossessivamente il proprio nome sui muri e sugli arredi urbani. Un gesto copiato da tanti altri giovani al punto che la pratica di dipingere il proprio nome con i colori sgargianti delle economiche bombolette spray – fino ad allora usate soltanto nell’industria dell’automobile, e spesso rubate dai ferramenta – diventa una moda, un nuovo linguaggio espressionista. Usare il proprio nickname associato ad un numero, ripetuto ossessivamente, diventa un «codice» emergente, segno di autoaffermazione, di identità, di demarcazione del territorio. Tagging o name writing verrà chiamata quest’azione pittorica che esprime le diverse culture degli immigrati nei contesti segnati da emarginazione e da disagio sociale. E non è un caso che il primo a coglierne la valenza sociale e artistica sia un sociologo, Hugo Martinez, che nel 1978 organizza la prima mostra di graffiti. La “cultura del bombing “, seppure criminalizzata e contrastata dalle istituzioni e dai sindaci che mal sopportano che vengano imbrattati i muri delle città, nell’arco di 15 anni diviene linguaggio comune, riconosciuto come arte, i suoi protagonisti acquisiscono fama ed entrano nel mercato dell’arte e nei musei. «Sui muri delle nostre città, dai dipinti monumentali alle più piccole e insignificanti installazioni, quelle rappresentazioni parlano di noi – scrivono Stefano Antonelli e Francesca Mezzano di 999Contemporary, i curatori della mostra -. Sono la narrazione contemporanea di chi siamo, cosa ci piace, cosa non ci piace, cosa ci aiuta e cosa ci respinge, quali sono i nostri incubi e cosa siamo in grado di immaginare». Per loro questi writers , questi artisti del contemporaneo, sono i nuovi guerrieri della pace. Guerrieri di cui nella mostra «sono rappresentati i codici estetici, linguistici, formali, morali ed etici che feconderanno la cultura visiva del nostro futuro off-line e on-line», i codici sorgenti di cui parla la mostra. Di grande interesse le opere esposte, dalle espressioni «primitive» realizzate con bombolette spray – nomi, segni, numeri – a lavori sempre più complessi e articolati che utilizzano i supporti e le tecniche più varie. Dalle opere degli anni Ottanta di Delta 2, Crash, Sharp e Mesnager, con il suo inquietante uomo bianco, al poster sotto vetro rubato in metropolitana e ridipinto da Retina, fino alle forme primordiali di Microbo, la prima writer catanese, agli splendidi volti di Whils realizzati per sottrazione di intonaci, pitture, carta. È a questo artista portoghese che si deve l’immenso e affascinante sguardo dipinto, in occasione della mostra, sugli enormi silos del porto di Catania, uno sguardo aperto a chi arriva dal mare, ai popoli del Mediterraneo. E ancora le figure che inneggiano all’uguaglianza e alla libertà di Shepard Fairey, detto Obey, autore dell’immagine di Obama che, dopo avere ottenuto la copertina del New York Times, è diventata il simbolo della sua campagna elettorale e della sua vittoria. E poi gli insetti e gli animali inquietanti di Ericailcane dal segno preciso e dalla critica graffiante contro l’avidità e la pervasività del denaro. E ancora i micromosaici di Invader, gli “stancil” di C215 che riproduce i volti di senza fissa dimora facendone i protagonisti della sua denuncia sociale, il suo modo di aiutarli rendendoli noti. Suo anche il bidone della spazzatura bruciato durante uno scontro tra polizia e giovani delle periferie dove ha impresso le fasi della guerriglia urbana. E ancora lo splendido volto che sprizza colore e furore di Matt Small, i volti segnati dalle rughe di JR, l’assemblaggio di tutti gli stili -dall’iperrealismo americano, all’oro di Klimt, ai corpi disfatti di Bacon, al gocciolamento di Pollock – nella tela di Conor Harrington, e poi le lettere dell’alfabeto arabo di El Seed che diventano grafica, disegno, arredo urbano che trasforma e abbellisce le città; e lo spettacolare Ipocampo di Alexis Diaz dal tratto preciso e minuzioso che evoca Durer, alle icone in stile bizantino di Faitakis che, in uno dei sui lavori, anticipa l’attacco alla cultura e ai valori dell’Occidente, fino al bambino di Seth, visto di spalle, dipinto attorno a una grata di ferro spezzata da cui, unico tocco di colore, pende la corda della fuga. Un bimbo che, dopo la strage del Bataclan, ha perso il colore, ingrigendo. E’ questa l’unica opera realizzata appositamente per questa mostra che resterà aperta fino al 18 gennaio per poi andare all’estero, a partire da Berlino, segno, come sottolineano il sindaco di Catania Enzo Bianco e l’assessore alla Cultura Orazio Licandro, di un nuovo respiro internazionale della città.
ARTICOLO DEL SICILIA DI PINELLA LEOCATA DEL 28 DICEMBRE 2015
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