TORINO
GALO è Galo, lo è diventato anni fa, quando frequentava il Real Collegio Carlo Alberto a Moncalieri, e passava ore a disegnare, elaborando quella faccina sorridente che sarebbe diventata la sua firma d’artista in giro per i muri d’Europa, e di Torino, e poi anche sulle tele.
Cinque anni fa ha aperto una galleria di street art a San Salvario, assieme alla moglie Sasha, dove espongono grandi artisti come giovani talenti. Lui nella manica ha molti assi, i nomi storici della street internazionale, suoi amici di avventure conosciuti soprattutto ad Amsterdam, negli anni Novanta, e poi a Londra, Los Angeles, Berlino. Allora questo movimento non era ancora una forma riconosciuta d’arte ma un’espressione urbana illegale, con cui tanti giovani rivendicavano la libertà creativa e di pensiero. Per esempio The London Police, D*Face e Shepard Fairey, conosciuto come Obey, colui che ha inventato l’immagine icona della campagna elettorale di Obama. Sarà proprio Obey il protagonista della prossima mostra da Galo a fine febbraio. In questi giorni, invece, Galo da gallerista torna artista, con una personale che fa il punto sul suo lavoro.
La street art è diventato anche un fenomeno di mercato. Tutti la vogliono tutti la fanno. Cosa contraddistingue ancora un’opera di questo genere? «La strada è un’esperienza imprescindibile, lì devi esserti fatto le ossa, la mano e il cuore. Ora la maggior parte arriva dalla grafica o dall’illustrazione, e la strada non sa neanche cosa sia. Tanti escono dalle accademie, hanno talento ed entrano nel circuito direttamente, senza mai aver fatto un treno, aver dipinto un muro o aver girato di notte con un secchio di colla o un pennarello». Il concetto di effimero si è perso? «Il lavoro in strada deve andare, per sua natura. Si lega al concetto di illegalità, di gesto che vuol colorare e divertirsi. Se pensi poi che ora si staccano interi muri per venderli e metterli nei musei… hanno cominciato dieci anni fa con Banksy. Sono scopi puramente economici di un sistema che ha trovato un nuovo bacino, ma che snatura la street». Che dimensioni ha preso la street come movimento? «È sicuramente il più grosso nella storia dell’arte, come numero di artisti e di produzione».
La faccina è il fil rouge del suo percorso artistico.
«È stata un’evoluzione continua, dai primi lavori su legno e pietra, più astratti, fino alla pluralità delle faccine, che nascono anche da un mio amore per Andrea Pazienza. Il mio strumento per eccellenza è il marker, il pennarello, ma io uso tutto, dal poster e lo spray all’acrilico. Il mio metodo è il free style, una sorta di scrittura automatica, però tecnicamente curatissima». La galleria è un coro di facce e faccine, di colori che corrono dappertutto, con una vitalità artistica contagiosa che crea uno spazio unico tra la strada e la galleria. Ma lei fa ancora le azioni illegali in strada? Galo non risponde, ride.
ARTICOLO DI OLGA GAMBARI DEL 29 GENNAIO 2016, LA REPUBBLICA
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