L’INTERVISTA – MILANO
I viaggi sono da sempre ottime fonti di ispirazione. È successo anche a Xavier Prou (Parigi, 1952), noto con il nome di Blek le Rat, durante una visita a New York nel 1971: la città è ricoperta di graffiti, è un’esplosione. Le immagini si fissano nella mente di Xavier: una lenta maturazione che lo porta a realizzare il primo murale nella capitale francese dieci anni dopo. È una forma di espressione artistica nuova in Europa, destinata a modificare i panorami e la percezione delle città. Quarantacinque anni dopo quel viaggio, uno dei fondatori della street art continua a esprimersi attraverso i suoi stencil. «La Lettura» gli ha rivolto alcune domande mentre le sue opere sono esposte (in vendita) fino al 5 marzo a Milano, nel nuovo spazio espositivo della galleria Wunderkammern.
Sin dalle origini della sua attività artistica, il ratto è stato uno degli stencil da lei più rappresentati. Compare persino nel suo nome d’arte. Perché?
«I ratti sono gli unici animali liberi che vivono in ogni città del mondo. Alcuni sostengono che siano più numerosi degli abitanti; non li vediamo spesso, ma sono ovunque. Ho voluto segnalare la loro presenza, nonostante non siamo disposti a riconoscere che i ratti vivono accanto a noi e che condividiamo con loro molte cose. Rat, inoltre, è l’anagramma di Art in inglese e in francese, e questa coincidenza mi piace molto. Ho preso il nome di Blek le Rat da Il grande Blek , un fumetto italiano che si leggeva negli anni Sessanta, quand’ero bambino».
Lei ha iniziato a utilizzare la stencil art nel 1981 e dopo 35 anni le sue opere sono icone riconosciute e apprezzate in tutto il mondo – basta pensare a «The Man Who Walks Through Walls», autoritratto che celebra la libertà di movimento delle persone. È cambiato qualcosa nel suo modo di fare arte con il passare del tempo?
«Nulla, a parte il fatto che non dipingo più illegalmente sui muri, da quando nel 1990 sono stato arrestato per un murale ispirato a Caravaggio che rappresentava una Madonna con bambino. Il giudice disse che era bello e stabilì una multa di lieve entità oltre all’obbligo di rimuovere l’opera, nonostante il proprietario del muro, che apparteneva a un hotel, volesse lasciarlo. Dopo questo episodio ho deciso di realizzare stencil su carta e successivamente incollare il foglio sul muro».
«Ogni volta che dipingo qualcosa, scopro che Blek le Rat l’aveva già fatto vent’anni fa». Con questa dichiarazione Banksy ha ammesso il debito che la street art ha nei suoi confronti. Pensa che lo stile di Banksy si possa considerare simile al suo?
«Trovare idee e diffondere messaggi è abbastanza semplice, il web ne è pieno. La cosa difficile nell’arte è trovare uno stile per esprimere l’idea. Lo stile richiede tanto lavoro. La tela bianca non vuole essere dipinta e la creazione è una battaglia contro la tela. Succede lo stesso in letteratura, cinema, musica… Lo stile in queste arti è predominante e lo stile è raro. Ci sono una dozzina di stili diversi nell’arte per ogni secolo: gli altri copiano questi pochi stili».
Spesso le opere di street art diventano famose non solo per la loro bellezza artistica, ma anche per la capacità di sottolineare con ironia fatti dell’attualità. Lo stesso titolo della mostra milanese, «Propaganda», richiama la sfera politica e la diffusione delle idee. C’è un legame tra politica e street art? La street art può influenzare il pensiero delle persone?
«Sì, penso che il legame possa essere forte, come racconta la mia storia personale. La prima volta che ho visto uno stencil su un muro ero a Padova nel 1961, in vacanza con i miei genitori. Ricordo di aver visto un messaggio di propaganda fascista che ritraeva Mussolini con l’elmetto. Ho chiesto a mio padre cosa
significasse e come mai le persone disegnassero sui muri. Mi disse che era stato dipinto durante il fascismo e mi spiegò la tecnica dei graffiti. Ho pensato che fosse brillante e ho mantenuto l’idea nella mia testa fino a quando ho iniziato io stesso».
Spesso nei suoi lavori si trovano personaggi famosi, scene sacre o quadri del passato. Come vengono scelti?
«Mi piace prendere personaggi da quadri o sculture dei musei e riprodurli nelle strade. È il mio modo di democratizzare l’arte nelle gallerie. Non tutti frequentano i musei o hanno accesso all’arte».
Il numero di esibizioni su artisti urbani è in crescita, così come aumentano le gallerie specializzate nel settore. Può esistere una street art «al chiuso»?
«Sì. La street art è un’arte effimera. Penso che i lavori non debbano restare per sempre su un muro. Ogni tanto vanno rimossi. Quando un murale su tela o altro tipo di supporto trova posto in una galleria significa che avremo un ricordo di ciò che è successo nelle strade. È una traccia da mantenere per le generazioni future. Non possediamo nulla dei primi graffiti di New York o di Filadelfia; abbiamo solo alcune fotografie. Penso che sarebbe importante avere uno dei primi lavori di Cornbread o Taki 183, come memoria degli anni Sessanta».
Il crescente interesse per la street art ha portato a un aumento delle quotazioni delle opere sul mercato. Non crede che l’aspetto economico possa influenzare un movimento da sempre basato sulla libertà? «Quando ho iniziato a dipingere, nel 1981, volevo far capire agli artisti che la street art è un buon modo per essere famosi ed entrare a far parte del mercato dell’arte. Lo sapevo! Ma la cosa che non sapevo all’epoca era che ci avrebbe messo trent’anni. È una questione di domanda e produzione. Non penso, comunque, che il lato economico ucciderà la street art; ho notato che, da quando alcuni artisti urbani come Banksy hanno fatto registrare prezzi stellari alle aste, un gran numero di nuovi artisti si è affacciato sulle strade di tutto il mondo: alcuni valgono poco, altri hanno davvero talento. Penso che questo movimento abbia ancora una lunga vita davanti. Sarà l’arte del Ventunesimo secolo».
ARTICOLO DI DAVIDE FRANCIOLI DEL 21 FEBBRAIO 2016, CORRIERE DELLA SERA
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