NAPOLI
Luci opache, graffiti e botteghe la stradina del centro antico appare diversa dai vicoli vicini
Nello schema ortogonale dell’antica città greca qualcosa sta cambiando. I vicoli di Neapolis, gomito a gomito con gli altri capillari di uno stesso cuore pulsante, ancora sembrano accomunati da un’uguale identità, quel microcosmo di energia, indole mimetica, melanconico allenamento a sopravvivere… Eppure c’è ormai Berlino a Vico San Domenico. La stradina una degli stenopoi che perpendicolarmente tagliano da nord a sud i tre decumani della città: più ampie strade parallele, le originarie plateiai via via sta delineando una fisionomia che la rende diversa dalle altre. Tra il decumano maggiore e quello inferiore, Vico San Domenico prima di sbucare nella omonima Piazza ha modo di mostrare l’audacia con cui si sta differenziando dagli altri vicoli che gli respirano accanto. A cominciare dalla luce, raccolta, opaca, non soltanto per la scarsa (annosa) illuminazione di pochi lampioni che spesso (senza ragione) restano spenti di sera costringendo passati e turisti ad affrettare il passo. Così le voci, anch’esse basse, quasi un sussurro rispetto ai toni espliciti degli spazi limitrofi. E gli odori, ugualmente forti, che spargono umori di negozi vintage che aprono e chiudono il breve tratto di strada. Chi imbocca il vicolo partendo dalla cima confinante con lo slargo di Piazza Miraglia, infila un tunnel di cielo costeggiato dai profili alti e ravvicinati dei palazzi, scorrendo tra fascioni di murales. Una street-art che lungo i muri mescola tocchi d’autore e ingenui inserimenti, moniti severi, arditi, o provocatoriamente didascalici: «homo magnato est», «non pagare, ruba», «Nino mèttiti scuorno»…, dove anche la lingua partenopea pare adeguarsi a un messaggio più universale. Un recinto di colori con l’effetto di un abbraccio. Graffiti vivi che, avvolgendo, ridanno aria a un portone, a una vetrina, alla piccola casa a pianoterra ridipinta di smalto luccicante, e ribattezzata con autoironico orgoglio: Basso 13. Si cammina tra effluvi di cuoio e aromi di avveniristici saponi esposti in bottega come variegati lingotti di marmo. La «panchina sosta mariti» è per visitatori geneticamente riluttanti allo shopping. Il cartello suggerisce di accomodarsi sotto l’arco di un portone, giusto di fronte alle vetrate di una allegra bigiotteria. A metà vicolo un cancelletto di ferro è quasi sempre sbarrato. Solo accostandosi e sbirciando tra le sbarre è possibile intuire la ripida scaletta che consente l’accesso ai piccoli antri che occhieggiano al di sotto del fondo stradale. È il laboratorio-atelier dove Sergio e Teresa Cervo custodiscono stilizzate sculture: carta, ferro, terra, foglie, sabbie, catrame. Lì dentro, i due artisti, lontani da ogni forma di esibizionismo, danno vita a una «immaterialità, di cui non possediamo ancora il racconto», come precisa uno dei recensori delle loro opere. Restano invece aperte e accese le vetrine delle moderne botteghe artigiane di un gruppo di giovani napoletani. Fattivi, decisi a prendersi cura delle sorti dell’intero vicolo, progettano di riunirsi in più di un’associazione culturale per tutelare meglio il loro lavoro e le loro giornate. Ognuno nel proprio settore: pelli, pietre dure, fantasiosi accessori, e design d’interni dichiaratamente mittel e nord europeo, operano senza ammiccamenti né richiami, spalla a spalla con l’arena di musici e saltimbanchi di Piazza San Domenico, a un tiro dalla inimitabile teatralità della via dei presepi, dal colorito fermento dei portici di Via Tribunali, dai misteri della statua del Dio Nilo quotidianamente omaggiato da pianini elettrici e nostrane melodie. Niente sole e mandolini. Neppure nelle insegne. Non a caso «La casa brutta» è il nome scelto da uno di quei luminosi negozi. Intagliati nel tufo degli antichi palazzi della stradina, senza rinnegare le proprie radici, sembrano tutti esibire un riserbo che poco ha di partenopeo. Una creatività restìa a ogni abusato cliché, gioiosamente aperta al futuro. Un’aria diversa che Vico San Domenico deve aver coltivato negli anni, certo agevolato dalla presenza dei duecenteschi muri del Convento di San Domenico, autentico gioiello per architettura e affreschi, restaurato nel 2012, e finalmente aperto al pubblico. Un esercizio alla meditazione forse sedimentata lungo la stradina, segnandola, predisponendola alla introspezione. Il vecchio cagnone nero, beatamente bastardo, che ancora la attraversa lento, pare consapevole di certi mutamenti. Scodinzolando, raggiunge le porte laccate avorio dell’American bar che timbra il vicolo dalla parte alta, e si ferma. Sembra disorientato. Continua a studiare le ante di ferro del locale dove una volta c’era uno dei bassi della strada: una stanzetta angusta ma adibita a mò di mini-tempio della musica. Lo spazio, esiguo, a stento conteneva il pianoforte contro una parete laterale, e la seduta del pianista che, a sorpresa, diventavano due: uno alto e corpulento, accordatore di strumenti con l’officina-deposito nel vicoletto alle spalle; e l’altro, saltuario musicista: piccolo, tracagnotto, quasi un nano rispetto alla stazza dell’accordatore. Però perfetti, insieme. Seduti davanti alla tastiera riproducevano a quattro mani melodie su melodie. Chopin, Bach, Rachmaninoff… Tutto il vicolo ne era inondato. Le note, struggenti, festose, ritmate, riprodotte sempre con abile grazia, accoglievano chiunque si affacciasse al primo imbocco del vicolo. D’obbligo fermarsi e sbirciare nell’ombra i profili dei due pianisti che, senza smettere di colpire i tasti, voltavano un attimo il capo allargando un sorriso, e un cenno. Di sicuro un invito: acconsentire a raccogliersi, guardarsi ogni tanto dentro.
ARTICOLO DI Giuseppina De Rienzo DEL 14 MAGGIO 2016, IL MATTINO
Gennaro Esposito
20 maggio 2016 at 04:20
La fotografia mostra solo un degrado arcaico.
“Ça va sans dire” …è il racconto romantico che poi può imbambolare chiunque.
“Pittoresco” dicono se ci capitano i turisti e poi se fuggono in fretta!
Bell’articolo, ma forse chi scrive vive altrove, e scrivendo un altro pezzo, magari si compiace ancor più del decoro e dell’ordine conquistato e mantenuto con impegno dove appare complicato.
Che poi ci sia chi di necessità fa virtù tanto meglio, è uno dei noti pregi della capacità di adattamento dei napoletani.
Però anche a loro servirebbe, e tanto, uscire da certe “cartoline” costruite ad arte.
Napoli è molto, molto altro.